Il patto siglato da UAMI al Viminale
Il primo febbraio di quest’anno fissa un punto di ancoraggio per il seguito dei rapporti tra comunità islamiche e Stato italiano, poiché il lungo percorso di incontri, iniziato nell’alba del nuovo millennio e portato avanti da un Tavolo a tre, che ha messo di fronte i rappresentanti di varie comunità islamiche presenti in Italia, dell’Ministero degli Interni e diverse voci accademiche, è pervenuto, grazie anche alla solerzia del ministro Marco Minniti e del suo staff, nonché della del gruppo dei docenti, alla sigla di un accordo definito come «patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e principi dell’ordinamento statale». A questo risultato si è giunti in seguito allo scambio di prospettive sulla bozza che i membri del Consiglio per i rapporti con l’Islam italiano hanno redatto basandosi nelle precedenti proposte dei rappresentati delle comunità islamiche. Sottoscrivendo il patto, insieme ad altre otto associazioni importanti, dopo un lungo percorso di incontri al Tavolo istituito dal Viminale, l’Unione degli Albanesi Musulmani in Italia rimarca gli impegni stabiliti già nella sua fondazione e rispettati nelle sue attività.
In sostanza il patto si presenta con venti punti, o meglio impegni, divisi in modo eguale tra le associazioni islamiche e lo Stato. La maggior parte di essi rispecchia un modus operandi ormai noto nell’attività di entrambe le parti. Non sono delle novità il «favorire lo sviluppo e la crescita del dialogo e del confronto con il Ministero dell’Interno, con il contributo del Consiglio per i Rapporti con l’Islam italiano» (punto 1), il «proseguire nell’azione di contrasto dei fenomeni di radicalismo religioso» (2), il «proseguire nell’organizzazione di eventi pubblici che attestino l’efficacia del dialogo interculturale sia valorizzando il contributo del patrimonio spirituale e culturale della tradizione islamica alla vita della società italiana» (5), il «facilitare i contatti e le relazioni delle Istituzioni e della società civile con le associazioni islamiche (8), l’«adoperarsi concretamente affinché il sermone del venerdì sia svolto o tradotto in italiano» (9), l’«assicurare massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti» (10). Come non lo sono gli obblighi presi dal Ministero degli Interni a «sostenere e promuovere, in collaborazione con le associazioni Islamiche, eventi pubblici intesi a rafforzare e approfondire il dialogo tra le Istituzioni e la comunità islamica» (1), a «favorire l’organizzazione, d’intesa con le associazioni e Comunità islamiche partecipanti al Tavolo di confronto» (6), a «estendere sul territorio l’esperienza, positivamente sperimentata in alcune aree, della costituzione dei “tavoli interreligiosi”» (7), a «programmare uno o più incontri di rilievo nazionale e pubblico tra le Istituzioni e i giovani musulmani in tema di cittadinanza attiva» (9), e altri ancora.
Da questa prospettiva il patto si presenta come un punto di arrivo, da un’altra prospettiva invece funge da punto di partenza sul quale costruire il futuro dei musulmani in Italia. Infatti, il sesto punto (a carico delle comunità islamiche), «favorire le condizioni prodromiche all’avvio di negoziati volti al raggiungimento di Intese», e il terzo (a carico dello Stato), «favorire specifici percorsi […] anche ai fini di eventuali richieste di riconoscimento giuridico degli Enti come enti morali di culto (ex l. 1159/1929 e il R. D. 28 febbraio 1930, n. 289) da parte delle “Associazioni Islamiche” ovvero di istanze di riconoscimento dei ministri di culto islamici», richiamano all’impegno bilaterale per lo spianamento della strada verso l’Intesa.
Ovviamente non tutti gli obblighi delle comunità musulmane sono da esse determinati. Nonostante «l’impegno di garantire che i luoghi di preghiera e di culto mantengano standard decorosi e rispettosi delle norme vigenti (in materia di sicurezza e di edilizia) e che tali sedi possano essere accessibili a visitatori non musulmani» (7), l’adempimento di quest’obbligo dipende spesso anche da volontà e poteri, locali o non, che condizionano le scelte delle comunità inerenti ai luoghi di culto. Se a una comunità islamica gli viene impedito in modo costante, per svariati motivi, di erigere un centro decoroso e soddisfacente per le necessità dei suoi fedeli, ciò non dovrebbe considerarsi come inadempienza verso i suoi obblighi. Anche se rimangono da concordare e dirimere i dettagli su come, per esempio, «promuovere la formazione di imam e guide religiose» (4, a carico delle comunità islamiche) e «favorire l’organizzazione, d’intesa con le associazioni e Comunità islamiche partecipanti al Tavolo di confronto, il Consiglio per le relazioni con l’Islam e alcune Università, corsi di formazione per i ministri di culto musulmani» (6, a carico dello Stato), il che rimanda alla continuità del Tavolo, tuttavia, nel complesso, il documento firmato mercoledì scorso è nitido, e qui albergano le sue novità e importanza, nel forte segnale della necessità di mettere in armonia le diverse voci dei musulmani in Italia e lo Stato stesso. È questa la strada maestra verso l’eguaglianza e il pieno inserimento nel tessuto giuridico e culturale italiano, a maggior ragione per comunità, come la nostra, derivanti dall’immigrazione, motivo per cui UAMI, indissolubilmente annodata al suo humus di nazionalità (in sincronia con fede e senso civico) si trova doppiamente risoluta a proseguire.